Bugiardino

I contenuti di questo blog rispecchiano malamente i pensieri del proprio autore. Quel che vi compare non è necessariamente il pensiero di Caritas Italiana o della Caritas di Ragusa. A cui, comunque, sono grato.

lunedì 16 novembre 2015

Fiori d’arrangio (di magliettine e mogliettine)

Romeo è un blando tifoso del Botosani Fotbal Club (non ridete, preliminare di Europa League fino al secondo turno), ma la sua maglietta nera ha stampato in caratteri rosa una frase complicata e pomposa secondo cui Dio è grande e il Palermo calcio è il suo profeta. Capiterà che si incontreranno, il Palermo Calcio e il Botosani Fotbal Club, in qualche turno agostano di una coppa minore, in un’annata fortunata per entrambe, per un colpo di cabala all'incrocio della vita di Romeo, senza che la sua mente un poco depressa e stanca ne rimanga particolarmente colpita, immersa com'è nelle otto ore di lavoro al giorno per 25 euro e un occhio al gratta e vinci del Chupa Chupa per svoltare davvero, prima o poi.
La maglietta di Alina è di un cotone troppo leggero, anche per un tiepido novembre vissuto a lavorare sotto la plastica e a passeggiare su un lungomare di dune. Alina ha finissimi capelli biondi e un viso da madonnina del quattrocento. Se si inginocchiasse a mani giunte davanti alla croce che campeggia su molte serre, la scritta sulla sua maglietta suonerebbe davvero come una preghiera che implora: “I’M NOT A ESCORT”
Sulle maniche corte di Luminita corre in verticale sul grigio la scritta PERONI, perpendicolare a un sorriso inarrestabile. Sabato Luminita si sposa e ha deciso di fare la lista nozze al Presidio. Vuole un tappeto per terra, un tappeto per il tavolo e un tappeto per il letto. “Un tappeto?” chiedo non molto convinto di aver capito bene, mentre rovisto tra i cenci da suk arabo ammassatisi da migliaia di cambi d’armadio, in cerca di qualcosa di salvabile.
“Tu sei uomo, non capisci, chiamami la ragazza”. E la ragazza torna sicura dal magazzino (che poi è una cucina) con un copri tavolo di merletti bianchi ricamati a mano, un copriletto di panno pesante dai colori scuri e un incredibile tappeto (ah – ah) di pelo folto color arancione, vestigia di un raid in India di qualche Renault 4 e che piace, incredibilmente, tantissimo e certifica irrefutabilmente che sono un uomo e non capisco. Arrivano pure gli invitati e vogliono scarpe eleganti per la cerimonia. Stanno lì tutti insieme, sposa e ospiti, senza l’ipocrisia di fingere benessere gli uni agli altri, contenti di mostrarsi finti per un giorno soltanto, obbedendo al codice di una festa, come un carnevale ulteriore.
Alì è indubitabilmente maomettano, ma ha il fisico e il viso di un Buddha a cui si è fulminata l’illuminazione. Non riesco a trovare una maglietta della sua misura: “Mi dispiace Alì, non ho niente per te”.
La sua faccia senza sorriso si rivolge a Dario, assediato all’angolo del Presidio da richieste che necessiterebbero, più che studi di giurisprudenza, entrature in paradiso: buste paga da recuperare, consulenti recalcitranti, anticipi che non fanno mai uno stipendio, notizie sul rinnovo dei permessi di soggiorno come dispacci da un mondo sotto a un diluvio. 
Alì vuole sapere da Dario se può dichiarare di essere residente al Presidio. “No - mi intrometto io - il Presidio non è un’abitazione, mi dispiace".
Nella stanza della lista nozze c’è grande eccitazione. Si scopre che una delle volontarie della parrocchia aveva un negozio di abiti da sposa e diverse giacenze in magazzino. Si sta organizzando una prova vestito per il pomeriggio successivo, si celebra il trionfo della femminilità. Sarà una bella festa.
Alì adesso prova a fare da mediatore per un connazionale che non parla italiano.
“Non può rinnovare il permesso se prima non trova il lavoro” prova a convincerlo Dario. E siccome ci guarda come se avessimo un conto in sospeso con lui, giungo a rinforzo: “Lo so che è un bravo ragazzo, ma la legge è questa”.
Alì mi guarda con grande stanchezza, la maglietta sformata che non è riuscito a cambiare sembra unta di terra: “Ma non puoi stare zitto, tu? Non sei l’avvocato e la tua borsa è solo piena di no.”
Ci resto male solo inizialmente, giusto il tempo di scendere dal piedistallo costruito con le ore di straordinario non pagato, i rientri a notte fonda, le albe color zafferano, i corsi di formazione in giro per l'Italia, insomma il mio modesto podio da cui additare a tutti l'ingratitudine del mondo. Scendo, dicevo, e mi ridico che noi operatori sociali siamo come irriducibili Bocchedirosa che lo fanno per passione. Dico ad Alì di aspettare, che chiederò alle volontarie, che sono più brave di me, di cercare ancora e meglio una maglietta pulita della sua misura. Chissà se qualcuna delle donne al suk arabo che poi è un magazzino che poi è una cucina trova anche per me una una maglietta con su la scritta: "I'M NOT A ESCORT"

giovedì 1 ottobre 2015

Una giornata al mare


L’ultima volta che abbiamo visto Alina era un punto interrogativo in una pancia grande otto mesi. Ottanta giorni dopo Alina ha l’età di una Luna piena, pochi capelli e la stessa bocca della mamma. È la prima persona a mettere il suo minuscolo piede al Presidio di Marina di Acate per la nuova stagione.

Valentino, invece, ha sette anni e i capelli tagliati lunghi come Chris Waddle a Italia ’90. Gioca con il pupazzetto di un super eroe con quattro braccia. Servono per lottare.  Un braccio per ogni biglietto da 10 euro che il tassista abusivo chiede al padre per accompagnarlo a scuola una mattina sì e una no. 

Le due bambine che guardano la mamma e il pavimento e sorridono non hanno nome. Non capiscono quando chiediamo loro: “Come ti chiami?”, ma tra un mese saranno bravissime e parleranno con noi al posto di qualche connazionale dallo sguardo sperduto, come di chi si è addormentato sui Carpazi e si è svegliato in riva al Mediterraneo.

Samir si è rannicchiato stretto nel vano ruota di un tir, mentre vedeva un nastro d’asfalto sfilare al di sotto di lui a 80 chilometri orari e poi il ponte di una nave, dalla Grecia fino in Italia. “Qualche volta può capitare che la ruota sale e allora non c’è niente da fare, fratello. Ma bisogna rischiare”

Petru è contentissimo e mostra ad Angelo le foto della sua nuova fidanzata tedesca che è una mora alta e bella da far paura.

Alì ha 50 anni e piange davanti al figlio di 18 perché il padrone li ha cacciati dopo sei mesi di promesse a 25 euro al giorno. La nuova squadra lavora per 20 e Alì singhiozza piano, all'aperto, appoggiato al muro in cemento armato: “Questa è la democrazia? Questa è la giustizia?” E lo chiede all’Italia.

Karim è arrivato qui dal Bangladesh. Lo guardano tutti perché da queste parti non siamo abituati a vedere persone con la faccia così nera. Lui non se ne preoccupa e recita a Emiliano nomi di paesi come un rosario di misteri dolorosi: India, Iran, Turchia, Grecia, Croazia, Ungheria, Romania, Austria, Palermo, Macconi. E sono state botte, rapine, segregazione, paure, clandestinità e lavoro nero.

Igor vuole sapere se ha diritto a un risarcimento per la coltellata ricevuta nel giorno della Pasqua ortodossa da un connazionale ubriaco che conosceva appena e ci mostra una impressionante linea di frontiera rosa che si solleva a separare il quadrante destro del suo ventre da quello sinistro.

Tre rumeni senza nome escono dalla stanza di Dario, che poi è una cucina adattata a studio legale. Il padrone non li paga, inizieremo la solita trafila di lettere, ispettorati, contrattazioni.

È già buio quando arriva Cataldo, un siciliano spassoso e folle, innamorato di tutte le donne. Si presenta alle volontarie che non conosce e usa prima il cognome, poi il nome e la città di nascita, come una recluta di 50 anni fa. E non si dimentica di aggiungere: “Fortebraccio mi chiamano” perché sembra veramente che abbia un’anima di fil di ferro sotto i muscoli. Alle ragazze più carine chiede ancora di sapere il nome e le informa del suo nuovo scooter comprato a 500 euro. La prossima volta canterà loro una serenata dal repertorio di un neo melodico napoletano o reciterà quella scena del film di mafia in cui Totò Riina viene chiamato professore dai picciotti perché è l'unico ad aver fatto la terza elementare. Poi Cataldo si scusa perché comincia "L’onore e il rispetto 2" su un qualche canale TV e ci deve lasciare. Ma promette che il prossimo martedì tornerà e noi non ne dubitiamo. Le nostre volontarie sono tutte carine.

Petronilla, invece, non se ne vuole andare e ci racconta per le millesima volta della collega che va a letto col padrone e della moglie che, invece, se la prende con lei, con quella sbagliata e che lei non è una buttana. Ha bisogno di qualcuno che le creda e noi siamo stanchi, ma non è per questo che le crediamo e stiamo ancora un po' ad ascoltarla.

Intanto Alì si è levato via dal viso le lacrime con il pollice e l’indice, Alina continua a dormire in braccio alle volontarie, il padre di Valentino ha saputo che esiste un servizio di scuola bus comunale, Fortebraccio ha informato con una semplice accelerata tutta Marina di Acate del suo nuovo acquisto, Karim controlla la taglia di un paio di jeans da lavoro e Petru ha conservato le foto, ma non il buonumore.

Petronilla ha un sorriso grande come il lungo mare di Macconi quando ci lascia andare e ci dice: “Grazie per quello che facete”

Quello che facciamo (facetiamo?) è Presidio.

Questo post è dedicato all'amico e collega Angelo che è stato promosso a un altro incarico e lascia Presidio. Ci mancheranno molte cose di lui, a parte le sigarette.

venerdì 24 luglio 2015

Winter on a solitary beach

Come i tanti teen-ager tatuati e spavaldi che le chiedevano adoranti l'autografo, anche noi l'abbiamo riconosciuta subito. Quella ragazza in bikini, pareo e piedi nudi sulla spiaggia affollata di Marina di Acate, la spiaggia che per otto mesi abbiamo guardato deserta e terrosa, è l'estate.

In piedi in riva al mare si spalma addosso crema solare rubata a un tramonto violaceo. Ogni tanto, con aria annoiata, guarda i figli che con paletta e secchiello effettuano il paziente travaso di ogni anno. Da una parte i turisti in arrivo, pantofole e seconde case, e dall'altro i lavoratori delle serre che vanno via contando i risparmi e le ernie, le borse e i giocattoli di seconda mano che porteranno ai parenti in patria.

Per chi le può ascoltare molte voci parlano di questo travaso: le serre che si scoperchiano senza svelare, tuttavia, il mistero dei braccianti, la nebbiolina che si alza dal mare e rende evanescente l'orizzonte del polo petrolchimico di Gela, le iridescenze degli oli che tralucono in superficie sul mare, i bambini tutti uguali e abbronzati, gli accenti dei bagnanti, il boato che viene dal mare, le luci nelle case, gli chalet in cui gli ultimi stranieri rimasti sono le ragazze dietro al bancone, l'odore di Coppertone in lotta disperata con quello delle fumarole. 

E ora che Marina di Acate ritorna agli italiani, Presidio è rimasto un luogo vuoto e afoso in cui gli armadi aperti, sbarazzati dei vestiti, sussurrano in loop "Estate" di Bruno Martino.

È tempo di sospendere la nostra navigazione sottovento. È tempo di portare il Berlingo alle cure di un accaldato carrozziere. È tempo, insomma, di ferie. Un ottimo espediente per dare governo al caos e tenerlo distante da noi per un paio di mesi.

Nel frattempo, se proprio non riuscite a trovarlo nei cinema all'aperto (e sarebbe un incredibile scandalo), potete poggiare il puntatore del mouse sul link al video di Marida Augusto e MaxHirzel sulle attività di Presidio che è stato girato a Marina di Acate e Castelvolturno. 

Da oggi anche questo blog va in ferie, magari recuperando (ma senza impegno) vecchie storie dei mesi trascorsi.

mercoledì 15 luglio 2015

Disperato, erotico, dummy


Ieri, ad esempio, aveva un vestito corto bianco con i fiori viola, che il vento le sollevava sulla cosce, fino a scoprirle il pube. I peli erano come li avevamo visti l'ultima volta, dipinti di verde. Ma l'ultima volta era del tutto nuda e quel richiamo agricolo ci si è presentato come un elemento che non abbiamo capito se perturbante o acconsenziente.

Tutti, o almeno tutti quelli che hanno interesse per le condizioni delle donne lavoratrici in agricoltura, dovrebbero andare a conoscere il manichino di via del Manichino. 
Non ha le braccia, riflesso di un riflesso sul fondo di una buia caverna della Venere di Milo, ma è il simbolo perfetto di un tipo di bracciantato che ripropone, ormai sotto la specie delle migrazioni, l'antica questione del meridione. 

Non parla, ma dice sulla situazione delle donne che lavorano nelle serre più delle inchieste e dei titoloni. È come se l'avessero messa lì a capro espiatorio di decine di ragazze, loro alter ego e, forse, maligna caricatura. Alle volte pensiamo che quella macchia di verde sia una pudica foglia di fico per questa Eva di materiale espanso non flessibile, altre volte ci pare che sia un osceno, primitivo, richiamo per istinti infoiati, per uomini innocenti con bisogni naturali. Valli a capire, gli essere umani.

Di certo lei è pronta a ricevere ordini, a essere spogliata, rivestita, spostata dalla cima del casolare al fianco della porta d'ingresso. Una volta ha accanto un pomodoro, un'altra volta le viene messo ai piedi uno pneumatico, un'altra ancora la trovate impalata accanto a un tavolo con sopra 8 bottiglie di vino vuote. E a noi sembra sempre che il Berlingo stia viaggiando dentro un rebus della Settimana Enigmistica, uno di quelli impossibili da risolvere, di cui oscuramente anche noi facciamo parte, con una immensa B o D che incombe sulla nostra testa ignara e nessuna donna inginocchiata a pregare un dio di cui ci sarebbe un gran bisogno.

Non è facile sostenere lo sguardo fisso del manichino di Via del Manichino. La sua nudità esibita e immobile su cui hanno passato un mano di fotosintesi clorofilliana. Le sue braccia amputate. La sua fusione di realtà e allegoria. Ti sembra sempre di rubarle qualcosa e, distogliendo lo sguardo, di riconoscerle una identità, di avere quasi capito come mai stia lì e su cosa voglia metterti in guardia con la sua boccuccia di plastica dura piegata a cuore. 
Che sia una casa d'appuntamenti, la presenza di uno psicotico, una idea di donna, un Maurizio Cattelan squattrinato e agricolo. Nulla, comunque, che mi lascia dormire sereno.

giovedì 2 luglio 2015

La busta paga di Adrian


La busta di paga di Adrian è un’agendina in pelle marrone con annotazioni a penna che si affollano fitte e sgrammaticate tra le righe. Nella colonna a sinistra, dal lunedì alla domenica compresa, si contano le giornate lavorative. In quella a destra gli acquisti effettuati dal proprietario del fondo presso cui Adrian lavora in nero e che vengono sottratti alla paga. La paga è di venticinque euro al giorno, nel caso di lavoro a mezza giornata dodici euro e cinquanta centesimi. Non tredici. Dodici e cinquanta. È un tipo preciso il datore di lavoro di Adrian e 6 il novembre sottrae dal compenso il pane, il 7 quindici euro di ricarica telefonica, il 12 ancora il pane e il costo di medicinali acquistati e consegnati a domicilio. La premurosa partita doppia dell’agendina in pelle marrone che Adrian conserva gelosamente è l’unica arma con cui gli operatori di Presidio stanno cercando di fargli ottenere il riconoscimento dei propri diritti, anche se incontrare Adrian non è facile. Vive, infatti, da segregato presso l’azienda per cui lavora e da cui non esce quasi mai. Nei fatti, oltre all’impegno in serra, svolge il ruolo di custode dell’azienda, ma questo incarico non risulta in nessuna colonna di dare e avere. È un tipo preciso il datore di lavoro di Adrian, ma solo quando conviene a lui. 

venerdì 19 giugno 2015

La legge della campagna

Esiste un punto impreciso, nelle campagne tra Vittoria e Scoglitti, dove per chilometri quadrati esistono solo serre e l’unico rumore che si sente quando si fa sera è un suono lugubre di vento che percuote la plastica e qualche cane che segnala, implacabile e lontana, la sua presenza.
In questo punto impreciso, raggiungibile a dorso di Berlingo e buona volontà, vive Tamara con i due suoi figli in età scolare. Nella foto sul passaporto Tamara è una ragazza piacevole, magra, con un’ombra di tristezza nel sorriso. Davanti a noi, nella casa che era stata un garage o un magazzino, Tamara è una mamma piacevole, magra, con un’ombra di tristezza nel sorriso. Ha iscritto i figli alle scuole elementari al suo arrivo, ad anno scolastico già iniziato. E dato che vive in un punto impreciso nelle campagne tra Vittoria e Scoglitti  ha scelto la scuola di Vittoria, senza sapere che la fermata dello scuolabus più vicina è quella per la scuola di Scoglitti.
L’unica soluzione possibile, poiché lei lavora già dall’alba, è che i due bambini percorrano da soli quasi tre chilometri per farsi trovare alle 7.30 alla fermata giusta. Oppure rivolgersi al servizio di trasporto abusivo che per 15 euro al giorno li accompagna a scuola. Non tutti i giorni, visto che il costo del passaggio è superiore alla metà del compenso giornaliero di Tamara. Ma alla scuola ci tiene, è importante, se non altro per consentire ai figli di incontrare ragazzi della loro età.
È questa la situazione che conosciamo quando Emiliano e Angelo rompono la monotonia di una sera di inizio primavera con la raucedine diesel del Berlingo. Portano giocattoli per i bimbi e notizie per una questione amministrativa di Tamara. Ne ricevono una inaspettata: “I bambini non vanno più a scuola. L’autista non vuole i soldi, ha detto che mi fa un favore”.
Nello sconcerto dei primi secondi si scava un tunnel un sospetto che non si fa in tempo a manifestare.
“I favori bisogna ricambiarli. È la legge della campagna.”
È il silenzio raggelato che segue una sentenza ingiusta quello che ci avvolge, una tristezza autentica da stazione. Poi il vento che insiste sulla plastica si porta via tutto e Tamara quasi consola noi e i figli: “Li iscrivo a settembre nella scuola giusta” dice tenace come la luna che sta spuntando e che domani, infatti, crescerà fino a diventare piena.

E mentre lasciamo i giocattoli e le notizie e mentre il caffè bollente preparato da Tamara eccita mucose e ricettori e nervi, ma non riscalda ci ripetiamo tornando in macchina: “la legge della campagna” e non sappiamo dire altro mentre in noi, in un punto impreciso tra lo stomaco e il cuore, qualcosa si è spezzato e fa male.

mercoledì 10 giugno 2015

La buona scuola

Abbassi, Buduru, El Barbir, Nacir, Taouil….
Non c’è alcun appello il giovedì pomeriggio a Marina di Acate, ma se l’insegnante lo chiamasse, suonerebbe più o meno così. Da circa quattro mesi, una volta a settimana, il Presidio mette a disposizione i proprio locali per una attività di alfabetizzazione alla lingua italiana proposta da una cooperativa locale. Ogni giovedì Veronica, che insegna italiano e parla arabo, aspetta i suoi 20 alunni maghrebini che tornano dalle serre e si siedono sulle sedie in plastica dura, intorno a due tavoli rotondi, per imparare la formazione del plurale, la coniugazione dei verbi, il manuale di conversazione per il bar o  per gli uffici comunali.
Sono lezioni che non mettono in palio la diaria di un corso di formazione, né i punti sul permesso di soggiorno e nemmeno un titolo di studio. I 20 alunni vengono perché vogliono imparare meglio la lingua italiana, tutt’al più per avere un diversivo nel mezzo della settimana lavorativa. Arrivano dopo il lavoro e dopo la doccia, vestiti come per un colloquio di lavoro, si portano la mano all’altezza del petto dopo avere stretto la tua, prendono dall’ultimo cassetto i quadernoni e infine si siedono, in un silenzio disciplinato, ad ascoltare l’insegnante per un paio d’ore. Trascorse le quali si attardano in capannelli per scambiare due chiacchiere, chiedere se si possono avere notizie per i permessi di soggiorno già in scadenza e non ancora consegnati, per dirci che quest’anno per il ramadan che coincide col solstizio sarà dura.
Ecco, sarebbe forte la tentazione di arruolare questi 20 alunni maghrebini nell’esercito della buona immigrazione e utilizzarli, come pallottole di mitragliatrice, nella ferocia delle contrapposizioni con cui si mantiene viva l’Italia di oggi, razzismo contro buonismo, povero contro povero, Salvini e papa Francesco.
Però io so, l’ho imparato a scuola, nello stesso giorno in cui spiegavano il gerundio, che quei 20 studenti rappresentano solo loro stessi, sono l’evidenza del loro percorso di vita individuale, perché individuali sono colpe e meriti e ciascuno di noi rappresenta se stesso e altro non è che una minuscola lettera nell'alfabeto della realtà.
Eppure, nella loro segregazione che hanno trasformato in separatezza dal contesto nazionale (un processo inconsapevole, ma di una efficacia incandescente), questi alunni che pronunciano le sillabe alla francese, che alzano la mano e aspettano il loro turno per parlare, che imparano avendo di fronte un Cuore di Gesù e una professoressa donna, un insegnamento ce lo forniscono.  Se la mafia, come diceva uno scrittore non molto lontano da questi luoghi, sarà vinta da un esercito di maestri elementari, forse l’odio alimentato da personaggi da due soldi, da posizioni che non cercano conciliazione, dall'inazione di governi, sarà vinto da un esercito di studenti elementari, anche se si chiamano , tra gli altri, Abbassi, Buduru, El Barbir, Nacir, Taouil.